Call Center, per chi l'ultimo campanello: così prova a cambiare l'esercito dei telefonisti

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Non è più un lavoro per giovani, ma non è ancora un lavoro "adulto". I call center hanno smesso ormai da qualche anno di essere un'attività riservata a studenti o a mamme part-time, al contrario mantengono ormai un livello di occupazione abbastanza stabile, con un turnover che tende verso lo zero, e con un costo del lavoro che di conseguenza cresce ogni anno anche per via dell'anzianità dei dipendenti. Il fatturato cresce, anche se di poco, ma il settore non riesce ancora a superare il meccanismo del "massimo ribasso", che spinge rasoterra i guadagni e impedisce di investire adeguatamente per compiere un salto di qualità importante, verso i contact center evoluti dove è il servizio offerto a fare la differenza, e non le tariffe "stracciate" a minuto, o a ora.

È un mercato che tuttavia tende sempre di più alla concentrazione (tra le principali operazioni dell'anno scorso la fusione tra Visiant e Contacta, che ha dato vita a Covisian): le prime 10 aziende per fatturato coprono il 56% dei ricavi. Però l'aumento del costo del lavoro appiattisce verso il basso l'ebitda, e così diventa difficile per tante aziende mantenere i minimi contrattuali stabiliti per legge e difesi a spada tratta dai sindacati, ma anche dalle associazioni datoriali. "Nel nostro Paese si tende spesso a dare un'immagine negativa delle attività di call center, in particolare di quelle in outbound (con le quali si propone ai clienti l'acquisto di un servizio o di un prodotto, ndr ) ", rileva Laura Di Raimondo, direttore Asstel, l'associazione di categoria che rappresenta tutta la filiera delle telecomunicazioni e che fa capo a Confindustria, obiettando che invece il settore mostra una sostanziale tenuta e sta affrontando "un continuo processo di consolidamento industriale, nonostante le complessità e alcune crisi in atto".

Trasformazione. "I call center - spiega Di Raimondo - attraversano un processo di trasformazione e di sviluppo che passa attraverso scelte di buona imprenditoria, a cominciare dall'applicazione dei contratti collettivi, come quello delle telecomunicazioni del 1° febbraio 2013 che riguarda oltre 130.000 lavoratori e quello del 1° agosto 2013 con il quale, per la prima volta, è stato stabilito un compenso minimo orario per le attività svolte dai collaboratori che operano in ambito dei call center sulle attività di outbound. E l'intesa del 28 giugno 2016, che ha visto l'introduzione di uno specifico piano sanitario per gli stessi collaboratori".

A giugno inoltre l'Asstel, che conta come associate le principali aziende di call center tra le quali Almaviva, Comdata, Covisian, Abramo, Call & Call, Customer 2 Care, Telecontact Center, Transcom, ha sottoscritto un protocollo con l'Anpal, la nuova agenzia per le politiche attive del lavoro, che prevede percorsi di riqualificazione e riconversione dei lavoratori, per cogliere le opportunità offerte dal digitale e superare le crisi.

Perché le crisi, nel settore dei call center, sono piuttosto frequenti. Tra le ultime vicende quelle di Almaviva a Milano (l'azienda aveva disposto il trasferimento nella sede di Rende per 65 dipendenti, bloccato grazie alla mediazione del ministro dello Sviluppo Economico, che coinvolto anche l'Eni, in qualità di committente), e a Roma (la Cgil ha denunciato un'analoga situazione, che interessa 43 lavoratrici madri), e della Call & Call a Locri (che intende licenziare 129 dipendenti). I lavoratori licenziati dai call center sono poi anche di difficile ricollocazione, dal momento che il lavoro è ritenuto poco qualificato (la metà abbondante dei circa 80.000 impiegati in Italia non va oltre il diploma di scuola media superiore ma c'è anche un 5,6% con la sola licenza media inferiore).

L'età media.Anche l'età media tende ormai ad essere alta, concentrata in quella fascia tra i 40 e i 50 anni per la quale non ci sono incentivi né all'assunzione né al reimpiego.

Le cose potrebbero cambiare se si puntasse di più a una valorizzazione dei servizi e dei lavoratori. Dal legislatore e dal governo sono arrivati vari contributi in questa direzione: una norma entrata in vigore il 1° aprile impone agli operatori di precisare se stanno chiamando dall'Italia o da un altro Paese dell'Unione Europea o da un Paese extra Ue: in quest'ultimo caso se l'utente lo richiede c'è l'obbligo di farlo ricontattare da un operatore Ue. Inoltre il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda ha proposto alle principali aziende che fanno uso di call center in outsourcing di sottoscrivere un protocollo con il quale si impegnano a limitare la delocalizzazione garantendo che "il 95% delle attività effettuate in via diretta sia effettuato in Italia entro sei mesi dalla stipula e che per i nuovi contratti almeno l'80% dei volumi in outsourcing sia effettuato sul territorio italiano". La richiesta è stata accolta finora da 13 aziende grandi utilizzatrici dei servizi di call center: Eni, Enel, Sky, Mediaset, Tim, Vodafone, Wind Tre, Fastweb, Intesa SanPaolo, Unicredit, Poste Italiane, Ntv, Trenitalia.

Ancora, per non comprimere i salari e la qualità i sindacati (Slc-Cgil, FIstel-Cisl e Uilcom- Uil) hanno chiesto di superare il sistema "di gare a minuto di conversazione in favore di altre modalità come ad esempio le gare a corpo" e al Mise di pubblicare tabelle con il costo orario minimo del lavoro, estendendo a tutte le gare pubbliche "il modello Inps", ovvero "favorire la stipula di accordi sul costo del lavoro in fase di preparazione dei bandi di gara". Una richiesta che ovviamente trova estremamente favorevoli anche le aziende: "L'ultima gara Inps e il recente bando del Comune di Milano per lo 020202 rappresentano il primo esempio positivo di applicazione del nuovo quadro normativo, - dice Andrea Antonelli, presidente di Almaviva Contact - sia perché impediscono i ribassi dissennati del passato sul costo del lavoro, sia perché definiscono le condizioni per salvaguardare la continuità occupazionale. Dove questo non accade sorgono i problemi".

La riqualificazione. La principale via di qualificazione dei call center tuttavia passa attraverso la qualificazione dei lavoratori, e le aziende ne sono ben consapevoli: gli investimenti in formazione, certifica il rapporto sulle Tlc stilato ogni anno dal Politecnico di Milano per Asstel, crescono nonostante la costante compressione dell'ebitda sui ricavi. "Comdata Group è cresciuta sostenuta da una capacità di innovazione, di organizzazione del lavoro, e investendo in formazione. Oltre che in nuovi centri operativi - assicura Adriano Mureddu, chief human resources officer di Comdata Group - I servizi continueranno a crescere, trasformandosi, trainati anche dall'e-commerce che sarà sempre di più al centro del nostro ecosistema ". "Pensiamo che sia importante lavorare sul valore aggiunto, più che sul costo del lavoro. - conferma Antonio Turroni, presidente di Covisian - Se i costi sono tutti uguali, piuttosto che la rincorsa al valore più basso bisogna puntare a "educare" i committenti a valorizzare tutto il resto, dalla capacità degli operatori di fidelizzare i clienti a quella di consulenza, che diventerà sempre più importante. Noi abbiamo lavorato moltissimo sulle tecnologie, sviluppando sistemi nostri perché nel mercato non abbiamo trovato quello che ci serviva, e sulla formazione: è appena partito a Milano il primo corso della nostra scuola di customer management".

Un mondo sommerso. Formazione, consulenza, e-commerce, sviluppo tecnologico è la direzione verso la quale si stanno muovendo soprattutto le aziende più grandi , che si stanno anche ulteriormente concentrando: le prime dieci per fatturato coprono oltre il 50% dei ricavi. Ma le difficoltà per il salto di qualità sono molte: "C'è ancora un mondo sommerso - denuncia PaoloSarzana, presidente di Assocontact, l'associazione delle aziende in outsourcing che aderisce a Confindustria digitale, e che conta tra i suoi associati 3gSpa, Eurocall, Assit, In &Out, Mediatica, Euroservice e Network Contact - che utilizza contratti diversi da quello delle telecomunicazioni, con minimi orari dimezzati rispetto a quelli di Asstel e Assocontact. Mi riferisco in particolare al contratto di Assocal, che è ormai privo di legittimità dal momento che l'unico sindacato che lo aveva siglato, l'Ugl, alcuni mesi fa lo ha disdettato".

"Il contratto è legittimo fino al prossimo rinnovo - obietta Antonio Di Lollo Capurso, di Assocall - C'è la parte fissa è di circa 450 euro per un part-time giornaliero di quattro ore, ma c'è poi una parte variabile legata alla vendita dei prodotti che permette ai lavoratori di arrivare in media ai 700-800 euro del contratto tlc". "Il risultato è che i lavoratori con contratto Assocall sono spinti a un eccesso di telefonate moleste, e questo ha portato alla proposta di un provvedimento, il Ddl Telemarketing, appena modificato dalla Camera dei deputati - che avrebbe altrimenti danneggiato l'intero settore", replica Sarzana.

"Per fare un call center di qualità - osserva Vito Vitale, segretario generale della Fistel-Cisl - bisogna investire nelle tecnologie ma anche avere delle commesse che mettano le aziende nelle condizioni di avere un minimo di marginalità e di investire. La moral suasion del Mise ha dato un contributo positivo, bisogna poi tutelare il costo orario, il modello è il documento concordato con l'Inps sulle gare d'appalto. Però poi c'è sempre chi trova la strada traversa, quella del continuo precariato, della delocalizzazione, del dumping contrattuale Non bastano gli investimenti di qualità, ci vogliono anche le commesse di qualità".

La Repubblica 

30 ottobre 2017

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