Senza Filtro - Quante volte, ricevendo una telefonata “promozionale” o chiamando per una richiesta di assistenza, dall’altro lato della cornetta ci è capitato di ascoltare una voce non italiana, proveniente da un paese estero?
Fenomeno di recente sempre più diffuso, è un’espressione della più ampia delocalizzazione delle attività produttive, che ha registrato un incremento negli ultimi anni. Secondo dati recenti diffusi dalla CGIA di Mestre, nell’arco temporale 2009-2015 il numero delle partecipazioni all’estero delle aziende italiane, attive soprattutto del settore commerciale, è cresciuto del 12,5%.
Un processo che interessa anche il mondo dei contact center, che in Italia impiega circa 80mila persone per un fatturato di circa 1,9 miliardi di euro, ma che da tempo ormai è attivo sempre più fuori dal nostro Paese. In particolare negli Stati extra UE, complici soprattutto i costi del personale inferiori e le gare al ribasso.
Di recente il tema è tornato in primo piano.
Per gli operatori che intendano delocalizzare fuori dall’Unione Europea, la Legge di Stabilità 2017 ha introdotto alcuni vincoli legati all’adempimento dell’attività di call center, con una serie di sanzioni importanti.
Secondo le nuove disposizioni, almeno trenta giorni prima della delocalizzazione gli operatori economici devono darne preventiva comunicazione al Ministero del Lavoro, all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, al Ministero dello Sviluppo Economico (indicando le numerazioni telefoniche messe a disposizione del pubblico) e al Garante per la protezione dei dati personali (indicando le misure adottate per il rispetto della legislazione nazionale vigente in materia), pena il pagamento di una sanzione di 150.000 euro in casi di omessa o tardiva comunicazione.
Da quest’anno inoltre i call center, sia inbound, cioè che ricevono richieste dalla clientela, che outbound, cioè che effettuano chiamate in uscita – perlopiù di tipo promozionale – dovranno obbligatoriamente informare l’utente sul luogo in cui si trova l’operatore che parla al telefono e della possibilità, per il medesimo, di richiedere che il servizio sia reso, immediatamente nell’ambito della medesima chiamata, tramite un operatore collocato nel territorio nazionale o in un Paese UE. In questo caso la sanzione è di 50.000 euro per ogni giornata di violazione.
Entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della Legge, infine, gli operatori economici che svolgono attività di call center su numerazioni nazionali devono iscriversi al Registro degli operatori di comunicazione (ROC), indicando anche tutte le numerazioni telefoniche messe a disposizione del pubblico. Lo stesso adempimento è posto a carico dei soggetti terzi affidatari dei servizi di call center. La sanzione in caso di inadempienza è di 50.000 euro.
Abbiamo commentato queste novità con Paolo Sarzana, presidente di Assocontact, associazione nazionale dei contact center: “Le disposizioni riguardano solo chi delocalizza in paesi esterni all’Unione Europea, per quelli europei non cambia nulla. Il paese extra UE verso cui si tende a delocalizzare di più attualmente è l’Albania”. Il motivo è molto semplice: se lo stipendio medio mensile di un lavoratore di call center in Italia è di circa 1500 euro lordi, oltre il mar Adriatico un dipendente costa circa un terzo.
Tutto ciò va a scapito non solo di chi lavora in Italia, ma talvolta anche di chi fruisce dei servizi offerti dai contact center, che si confronta con difficoltà di comprensione legate all’inadeguata preparazione linguistica o alla scarsa formazione degli operatori.
Con la nuova Legge di Stabilità e la previsione di sanzioni rigide l’auspicio è arrivare a una maggiore trasparenza e qualità dei servizi offerti da chi opera fuori dall’Unione Europea. In parallelo, ci si sta muovendo verso una maggiore tutela anche di chi lavora in Italia.
Nel maggio 2017, infatti, tredici aziende che rappresentano il 65% del fatturato del settore avevano stipulato con il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda un protocollo che definisce le buone pratiche sociali e commerciali per la gestione dei servizi di contatto con la clientela, che fissa all’80% la soglia dei servizi erogati in Italia e stabilisce che “il 95% delle attività svolte in via diretta sia effettuato in Italia entro sei mesi dalla stipula e che per i nuovi contratti almeno l’80% dei volumi in outsourcing sia effettuato sul territorio italiano”.
Secondo Paolo Sarzana il protocollo, salutato dal ministro Calenda come un “grande segno di responsabilità sociale”, “è rimasto soltanto una dichiarazione di intenti, in quanto i committenti coinvolti non hanno poi messo in atto quanto auspicato”. Secondo quanto contenuto nel documento presentato da Palazzo Chigi a maggio, step successivi alla firma avrebbero dovuto essere l’avvio di un tavolo tecnico per il monitoraggio dei risultati e la realizzazione di un modello di buone pratiche per il settore.
Quello dei call center è quindi un universo interessato da importanti trasformazioni, che dovrebbero, almeno sulla carta, mettere ordine nel settore, garantire maggiore qualità al cliente finale e soprattutto provare a tutelare anche chi lavora nel nostro Paese. Al momento i dati parlano di un settore in calo nei fatturati, -10% nei cinque anni dal 2010 al 2015, che impiega per la maggior parte personale di età superiore ai 30 anni con titoli di studio non elevati, e quindi più difficilmente ricollocabile nel mondo del lavoro in caso di licenziamento.
Non è semplicissimo tracciare lo scenario in modo netto, sia perché le disposizioni in materia sono ancora relativamente recenti per valutarne gli effetti, sia perché va tenuto conto di altri cambiamenti più ampi, come la tendenza di alcune aziende a rientrare in Italia dopo la fuga all’estero, individuata anche dalla CGIA, che potrebbe anche interessare in futuro chi opera nel settore dei contact center.
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