Business Insider
I Call Center. Creature mostruose, anfibie, sirene che con il loro canto melodioso hanno intrappolato migliaia di giovani nelle loro grinfie. Lavorare in un Call Center, negli anni, è diventato uno status symbol, un’efficace tagliola sociale per distinguere chi è riuscito a costruirsi una carriera e chi, invece, ha dovuto arrangiarsi. Non è chiaro se questi posti si siano caricati di tutto il loro potenziale retorico e narrativo (tanto da essere oggetto di film, libri, canzoni e dei discorsi dei politici più arraffa-consensi) perché rappresentano veramente il gradino più basso della scala lavorativaoppure perché sono il teatro ideale in cui ambientare il melodramma dei sogni spezzati di una generazione, come la narrazione più convenzionale vorrebbe farli apparire.
Finire a lavorare in un Call Center, perlomeno per un laureato, equivale ad ammettere una piccola sconfitta, anche se solo temporanea.
Ciononostante, da quando ho iniziato a chiamare al telefono le persone per guadagnarmi da vivere, mi sono reso conto di quanto la realtà dei Call Center si distanzi dal racconto che ne viene fatto.
Ci sono molti miti intorno alla figura dell’operatore telefonico e quasi nessuno di questi è vero. Certo, questo lavoro ha molti lati odiosi, ma rimane comunque un’attività come un’altra, anche ben retribuita, e non un orrido incubo, come lo si vorrebbe fare apparire. Per cui è giunto il momento di sfatare alcuni miti che circondano i Call Center e di raccontare cos’è veramente il mestiere dell’operatore telefonico e come si articola. In modo da sapere veramente di cosa parliamo quando parliamo di Call Center.
Il primo mito da sfatare, quello più abusato, è quello che riguarda il tipo di persone che lavorano in un Call Center. La narrazione comune li vorrebbe popolati da una ingente percentuale di laureati che, alle prese con il periodo post-universitario, hanno dovuto ridimensionare i propri sogni di gloria (perlomeno a livello salariale) e si sono dovuti arrangiare per guadagnare i soldi necessari a foraggiare le proprie ambizioni. Niente di più sbagliato: l’unico laureato della sala in cui lavoro sono io.
La stragrande maggioranza dei miei colleghi è molto giovane, in un range che va dai 20 ai 24 anni, e non ha frequentato l’Università. Anzi, per effetto contrario, molti di loro hanno in progetto di iniziare a farlo. Ci sono anche colleghi più anziani, fino a oltre i 40 anni, ma generalmente neanche loro sono laureati. Perlopiù sono artisti, in gran parte attori. Il mito del Call Center come simbolo del disfacimento del sistema universitario italiano e dei suoi meccanismi di inserimento nel mondo del lavoro, alla prova dei fatti non regge. Casomai, i Call Center possono essere la pista d’atterraggio delle ambizioni di artisti che non hanno sfondato. Ma questo è tutto un altro discorso.
In secondo luogo, mai affermazione fu più falsa di quella secondo cui gli operatori Call Center guadagnano a provvigione.
D’accordo, il Call Center in cui lavoro io non è un Call Center “puro”: non ci occupiamo soltanto di vendita, ma anche di “retention”, ovvero della cura dei clienti già acquisiti. Non facciamo vendita esterna, ma rivolgiamo le nostre offerte solo ai clienti che già hanno un contratto con noi. Tuttaviale provvigioni ci sono lo stesso, anche se non funzionano nel modo in cui tutti credono. Nell’idea generalizzata che si ha dei Call Center la paga oraria è molto bassa e tutto il vero guadagno deriverebbe dalla chiusura dei contratti. Nel Call Center in cui lavoro io, casomai, è il contrario. Lavoriamo su turni fissi, anche se non obbligatori (nel senso che chiunque può uscire dal lavoro prima, se lo desidera) e abbiamo una lauta paga oraria. Le provvigioni dei contratti chiusi ci spettano solamente nel caso in cui il totale del guadagno ottenuto con i contratti superi il guadagno ottenuto attraverso la paga oraria.
Il nostro contratto è di collaborazione continuativa e personale. I giorni di malattia non sono pagati e non esistono ferie, nel senso che basta avvertire la propria assenza per il lasso di tempo che si desidera e il gioco è fatto.
Un altro cliché, questa volta sperimentato da tutti in prima persona, vuole che il rapporto di un operatore con i clienti sia difficile e burrascoso e che nell’arco della giornata un lavoratore di un Call Center sia costretto ad ascoltare infiniti improperi rivolti alla sua persona. Questo non è assolutamente vero. Certo, queste situazioni capitano spesso, ma nella maggior parte dei casi i clienti arrivano addirittura a ringraziarti della chiamata.
Non solo: se lavorare in un Call Center è considerata un’attività odiosa perché prevede il fatto di dover chiamare persone che, nel migliore dei casi, non sono interessate a quello che hai da dirgli, è anche vero che per un operatore il rapporto con il cliente è assolutamente irrilevante e che dopo qualche giorno di lavoro le persone contattate non sono altro che meri nomi sopra a uno schermo.
Generalmente, in un Call Center si sta abbastanza bene. È un lavoro come un altro, stressante e noioso nella stessa misura in cui lo sono molti altri. Adornarlo di una patina odiosa e repellente è inutile almeno tanto quanto attribuirgli significato in termini di esperienza. Un Call Center è un luogo dove guadagnare soldi facendo il minimo sforzo richiesto. Non ci si va per vivere, ma per sopravvivere. Il problema per la mia generazione, semmai, è capire come vivere nell’Italia del 2018.
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